Di “stampa 3D” si parla ormai da qualche anno. Ma la tecnologia è invece molto più datata. Semplicemente, dopo un lungo periodo di “gestazione” di sistemi particolarmente costosi e complessi in grado di realizzare prototipi con la tecnica additiva, i costruttori hanno deciso di sostituire “prototipazione 3D” con “stampa 3D”, per sottolineare la semplicità di utilizzo dei nuovi modelli e la loro vocazione “mass market”.
La Prototipazione ARP
Per quanto mi riguarda, preferisco ancora riferirmi alla “vecchia” terminologia, semplicemente perché tutt’ora il processo, anche per le macchine hobbistiche destinate ai neofiti è ancora molto più complesso rispetto alla tradizionale stampa, e soprattutto perché le potenzialità produttive e i materiali impiegati consentono in realtà di ottenere per l’appunto prototipi. La sigla ARP sta appunto per Additive Rapid Prototyping, in alternativa alla tecnologia SRP, Subtractive Rapid Prototyping, nella quale il modello viene ottenuto “asportando materiale in eccesso”, ad esempio tramite fresatura CNC.
Entrambi questi metodi sono vecchi quanto il mondo. I primi utensili, schegge taglienti di selce, rappresentano i progenitori di scalpelli, frese, utensili da tornio.
Ai nostri antenati deve essere apparsa la cosa più semplice modellare un attrezzo ricavandolo da un ramo o da un osso.
Ma altrettanto semplice, sebbene in epoche successive, è apparsa la possibilità di costruire oggetti tridimensionali con tecniche “additive”.
Usando fibre, polveri, materiali plastici come fango e argilla sono state costruite le prime stoviglie e i primi cestini.
Anche se il processo era ovviamente manuale, l’intento era lo stesso di ora – creare un oggetto da materiali di partenza geometricamente essenziali: particolati, filamenti, blocchi. A pensarci, persino le costruzioni in mattoni, apparse migliaia di anni fa ed usate ancora oggi rappresentano un esempio di manifattura additiva.
Interessante, riferito a tempi “moderni”, questo brevetto depositato nel 1920 di un sistema, basato sulla saldatura ad arco, per realizzare “articoli decorati”. Un antesignano della ad oggi popolare tecnologia FFF, Fused Filament Fabrication.
Insomma, il concetto di prototipazione (o stampa, se proprio vogliamo) 3D è in circolazione da secoli. Ma volendolo riferire a tecnologie e prodotti attuali, dobbiamo andare non troppo indietro nel tempo, e precisamente all’anno 1986, anno nel quale Chuk Hull, cofondatore di 3D Systems, definisce un processo, la stereolitografia, nel quale polimeri fotosensibili allo stato liquido vengono solidificati strato per strato da una sorgente di luce utravioletta. Per la verità, anche la Istraeliana Cubital nello stesso anno presentò una macchina in grado di produrre oggetti 3D in modalità additiva, basata sulla tecnologia SGC (Solid Ground Curing), quindi è difficile assegnare con certezza la palma di “inventore della stampa 3D”.
Entrambi i sistemi erano molto complessi, costosi e ingombranti (9 miliardi di lire e svariati metri per lato per la Cubital!), e per molto tempo sono rimasti assolutamente fuori portata dei grandi mercati, anche se svariate migliorie tecniche apportate nei decenni successivi hanno tracciato la strada degli attuali prodotti.
Solo nel 2005 avviene un cambiamento epocale. L’ingegnere britannico Adian Bowyer dell’Università di Bath fonda l’organizzazione RepRap.org. L’idea era quella di creare una stampante capace di produrre la maggior parte dei pezzi con i quali era costruita, e diffonderne i progetti. Introducendo questo concetto, l’ingegner Bowier ha messo in moto un fenomeno mondiale che ha rapidamente portato alla diffusione di stampanti 3D per uso personale. La tecnologia di base di queste macchine – denominata FDM (Fused Deposition Modeling) o FFF (Fused Filament Fabrication) impiega filamenti di plastica, tipicamente ABS (acrilonitrile butadiene stirene) o PLA (acido polilattico). I filamenti vengono fusi sino ad ottenere un materiale plastico, che viene estruso da una testina in grado di muoversi nello spazio 3D, sino ad ottenere il modello desiderato.
La RepRap 1.0, denominata “Darwin” era costruita con un telaio realizzato con barre filettate, congiunte da elementi in plastica, stampati in 3D. La maggior parte delle macchine derivate usa una costruzione simile.
L’impiego di queste macchine inizialmente non è stato del tutto “user friendly”. Per prima cosa, i primi modelli posti in commercio (Darwin, Prusa, Mendel, MakerBot) erano forniti in scatola di montaggio. Probabilmente molti kit (saldature bruciate, connessioni errate, problemi meccanici di vario tipo) non hanno mai neppure preso veramente vita, montati da sinceri appassionati purtroppo privi delle basi necessarie. E quelli che sono riusciti a renderli funzionanti hanno dovuto affrontare svariate problematiche (es. deformazione e distaccamento della parte) prima di riuscire a produrre qualche modello utilizzabile. Ma anche chi si è cimentato con macchine CNC hobbistiche ha rotto molte frese prima di ottenere i risultati desiderati…
Ad oggi esistono centinaia di modelli in commercio, e molti problemi infantili delle stampanti 3D sono stati risolti. Nella pagina Guida alle stampanti 3D è presente un elenco in rapida crescita, che include le migliori, (le peggiori) e le più promettenti stampanti 3D del momento.
E adesso?
Come cambierà nel prossimo futuro il mercato delle stampanti 3D per uso personale? E’ abbastanza facile prevederlo, e i segnali sono già chiaramente visibili. La maggior parte dei prodotti in commercio è fabbricata artigianalmente, spesso da giovanissimi che hanno avviato una piccola impresa nel garage di famiglia. Questo “movimento” ha creato molto rumore, destando l’interesse non solo del mercato, ma delle industrie, capaci di progettare e produrre prodotti su larga scala, con prezzi e caratteristiche adeguati all’utenza di massa. Probabilmente, nell’arco di un anno o due l’80% dei piccoli produttori sparirà, soverchiato dalla potenza produttiva e commerciale della grande distribuzione.
Peccato. In ogni caso, per i progettisti dotati e per i giovani imprenditori capaci ci sarà sempre comunque spazio.