Tevo Little Monster: recensione e montaggio

Pietro Meloni DIY, Guide, Stampa 3D 1 Comment

 

Chissà se il nome Little Monster è stato scelto da Tevo in omaggio alla saga di film d’animazione Monster & Co tanto amata dai bambini. Sicuramente questa grande delta, il cui appellativo “Little” è decisamente ironico, sembra molto più orientata a fanatici e irriducibili nerd della stampa 3D.
Sì, quelli che non temono di mettere in crisi un matrimonio, portando a casa un sacramento semovente di oltre 1 m e 20 di altezza. Quelli pronti a confiscare, viste le dimensioni, il tavolo buono della sala da pranzo per montarlo. Quelli che a cena pronta dicono: ancora cinque minuti e poi ho finito…

C’è però un modo per farsi perdonare di tanta trascuratezza: la Tevo Little Monster può stampare in un sol pezzo il modello di un bambino (piccolo, si capisce), e questo scioglie il cuore di qualsiasi moglie.

Tevo Little Monster
A parte gli scherzi, questa grande stampante è davvero molto flessibile: oltre che per scopi amatoriali, e per la sperimentazione di varie soluzioni, può senz’altro essere utilizzata per attività artigianali e perché no, professionali.
È una macchina robusta, con un volume di stampa che sarebbe riduttivo definire generoso, meccanica ed elettronica di tutto rispetto, ad un prezzo assolutamente competitivo.
Forse proprio questa caratteristica, insieme al fatto che è disponibile in versione kit (ma non solo) la fa percepire come un prodotto destinato prevalentemente agli appassionati.
E-almeno in questa prima recensione-ci soffermeremo prevalentemente proprio su quest’aspetto: l’appartenenza della Tevo Little Monster alla grande famiglia delle stampanti fai-da-te.

Costruire un kit è complicato?

Sì, generalmente si. Soprattutto quando si tratta di kit economici. Ne ho già discusso in passato, sottolineando che la scelta di costruire un kit richiede competenza e vocazione. È una scelta che possono permettersi persone ordinate e meticolose, che abbiano a disposizione spazi adeguati e la tranquillità necessaria per portare a termine il progetto. Molto spesso i kit sono accompagnati da documentazioni sommarie e non sempre aggiornate. La loro costruzione richiede esperienza, manualità e talvolta addirittura intuizione. Non è, mi fa piacere ribadirlo, un modo per risparmiare soldi. Semmai, è un modo per divertirsi.
Dopo queste elucubrazioni sui kit in generale, mi rendo conto-piuttosto scoraggianti-veniamo al caso specifico in questione, che è un po’ diverso.

Anche costruire una Tevo Little Monster è complicato?

Ha utilizzato due sottotitoli molto simili proprio per sottolineare che non sempre si può generalizzare. In questo caso, parliamo di un tempo complessivo di montaggio che oscilla tra le due e le tre ore. Non molto più lungo della messa a punto di una macchina plug & play. Perché? Per due buone ragioni. La prima è che la maggior parte dei componenti sono premassemblati. In realtà, la Tevo Little Monster più che un kit vero e proprio sembra un intelligente soluzione per ridurre il volume dell’imballo e le conseguenti spese di trasporto che altrimenti risulterebbero particolarmente elevate. La seconda ragione è che la documentazione, nell’insieme ben fatta, è particolarmente compatta: tolto il frontespizio alcune illustrazioni finali, sono soltanto sette pagine.
Per il montaggio, non sono necessari particolari attrezzi (alcuni tra quelli forniti non vengono neppure utilizzati), né particolari attitudini. Gli elementi necessari per portare a termine le varie fasi sono racchiusi in bustine numerate, e questo permette di procedere con un certo ordine.
Infine, la principale preoccupazione di chi si accinge ad assemblare un kit fai-da-te, i collegamenti dell’elettronica, è superata dal fatto che i cablaggi sono tutti già pronti.
Completato l’assemblaggio meccanico (ridotto a qualche decina di viti) si tratta di collegare alcuni connettori che per la loro forma, e per il fatto di essere meticolosamente etichettati, non possono venire confusi. Il gioco è fatto. Insomma, l’uovo di Colombo. Una soluzione che permette a chiunque, anche alle prime armi, di godere della soddisfazione di essere riuscito a montare da solo una stampante 3D.

Nel video in basso, un riassunto (ma non troppo riassunto) dell’esperienza di montaggio, leggendo le istruzioni “in diretta”, e quindi esposti a tutti i possibili errori.

Principali caratteristiche

Tevo Little Monster

Dimensioni600x600x1200 mm
Volume utile
(cilindrico)
340mm (D) x 500mm (H)
TelaioAlluminio anodizzato e verniciato a polveri
EstrusoreE3D semi-bowden
(T-Max 260°)
Piano (riscaldato)Vetroceramica, T-Max 110° (CA 220V)
Elettronica32 bit
Alimentazione24V
DisplayMKS TFT28 Touch screen grafico
CalibrazioneAutomatica (BL Touch)
Ripresa lavoro dopo interruzione di correnteSi
ConnessioniUSB, Ethernet, SD
SoftwareOpen Source
PiattaformaSmoothieware, su scheda SD

Tevo Little Monster è disponibile presso ShareMind, sia in kit, sia pronta all’uso.

ABS o PLA? Il PETG potrebbe essere la scelta giusta.

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Gli utilizzatori delle stampanti 3D sono da sempre schierati in due opposte (e agguerrite) tifoserie: i sostenitori del PLA, e quelli dell’ABS. Ne abbiamo parlato molte volte. Un verdetto sicuro su quale tra questi due materiali sia il migliore è impossibile. Entrambi presentano vantaggi e svantaggi che li rendono più o meno adatti a seconda del tipo di macchina disponibile e della natura degli oggetti da realizzare. Le principali differenze tra questi due materiali, sintetizzate nella tabella sottostante, evidenziano in modo chiaro che per alcune applicazioni nessuno dei due risulta la scelta ideale.

PLA e ABS: faccia a faccia

 PLAABS
TipologiaSemicristallinoAmorfo
OrigineOrganicaSintetica
BiodegradabileSiNo
RiciclabileNoSi
Tossicità fumiVirtualmente nullaDiscutibile
Compatibilità con alimentiIn alcuni casiNo
OdorePressoché nulloSgradevole
Resistenza meccanicaMediaMedio alta
Resistenza al caloreBassaMedio alta
FragilitàMediaBassa
FlessibilitàBassaMedia
Deformazione (warping)BassaElevata
Adesione interlayerMediaMedio bassa
Postlavorazione (carteggiatura, foratura, maschiatura)Poco indicatoOttimale
Peso specifico1,25-1,301,06-1,07
Facilmente incollabileNoSi
Richiede piano riscaldatoNon indispensabileSi
Facilità di stampaElevataMedia
Rischio di intasamento ugelloMedio altoBasso
Temperatura di lavoro ottimale (estrusore/piano)195-215/50230-260/100

E allora, se ad esempio volessimo realizzare un oggetto di dimensioni medio grandi che debba successivamente venire lavorato in postproduzione? Se avessimo bisogno di una maggiore flessibilità? Fortunatamente l’elenco dei filamenti disponibili non si ferma al PLA e all’ABS. Esistono materiali alternativi che, pur introducendo altre limitazioni, coniugano il meglio dei due filamenti che tradizionalmente si contendono il podio. Uno tra questi è il PETG.

Formula chimica del PET

Vediamo per prima cosa la carta d’identità di questo materiale, con alcune informazioni sulla sua composizione chimica e le sue principali applicazioni nell’industria, anche al di fuori della stampa 3D.

Il PETG è una variante del polietilene tereftalato, un copolimero della famiglia dei poliesteri, adatto al contatto alimentare.

Riguardo alla potenziale tossicità, il PET (G) si decompone alla temperatura di 340°, con formazione di acetaldeide, sostanza chimica tossica (gruppo 2B) classificata come potenzialmente cancerogena, ma solo se associata al consumo di bevande alcooliche.
Le principali applicazioni industriali sono la produzione di film (es. Mylar), tubi, bottiglie, contenitori, etichette. La produzione attuale sfiora i 20 milioni di tonnellate. Rispetto al PET “standard”, il PETG è una variante modificata con glicoli.

Nella vita quotidiana, lo incontriamo spesso nelle bottiglie per acque minerali e altre bevande. Chiunque abbia utilizzato una di queste bottiglie per contenere benzina, natfta o solventi di vario genere, ha potuto rendersi conto che questo materiale è difficilmente attaccabile dagli agenti chimici.

  • Il PETG è particolarmente durevole, e notevolmente più flessibile del PLA e dell’ABS, ma anche più morbido. È difficile romperlo. Se l’oggetto da realizzare è un contenitore o un involucro che deve presentare caratteristiche di elevata resistenza, il PETG è il materiale più adatto (ad eccezione del Nylon 12, che presenta però maggiori difficoltà di stampa e costi più elevati).
  • I ritiri sono particolarmente contenuti, di conseguenza la tendenza a sviluppare deformazioni e minima. Il PETG è ideale per stampare oggetti di grande volume.
  • Il PETG è anche molto robusto, e affatto fragile, ma può essere graffiato con facilità, essendo sensibilmente meno duro dell’ABS.
  • La gestione dei supporti risulta particolarmente complicata, perché l’adesione inter layer è elevatissima. D’altro lato, questa caratteristica determina una robustezza superiore degli oggetti stampati con questo materiale.
  • Anche l’adesione al piano di lavoro è elevata; è necessario porre attenzione durante la rimozione dell’oggetto dopo la stampa. Potrebbe risultare particolarmente difficoltosa.
  • Il PETG è estremamente resistente alla azione di agenti chimici, acidi e alcali. È l’ideale per ottenere modelli impermeabili.
  • Durante la stampa non viene sostanzialmente prodotto alcun odore.
  • Tipicamente, il PETG è semitrasparente, e questa caratteristica lo rende particolarmente adatto per la stampa di modelli che debbono risultare traslucidi. D’altro canto, la sua finitura lucida può evidenziare la scalettatura dei layer, evidenziando i difetti. Con alcune pigmentazioni si possono comunque ottenere filamenti dall’aspetto semi opaco.
  • Nei test effettuati da Thomas Sanladerer, la resistenza a trazione nel senso parallelo ai layer, viene definita “fuori scala”,  con il significato che è praticamente impossibile romperlo.

    resistenza del PetG

 

Per quali applicazioni pratiche è adatto il PETG?

Ovviamente, come per tutti i materiali, non può essere raccomandato in assoluto. Ad esempio, la sua elevata flessibilità potrebbe non essere adatta per alcune applicazioni. In altri casi, potrebbe essere necessaria una flessibilità ancora maggiore, con il bisogno di ricorrere al TPU, PLA flessibile o Nylon.

Una delle sue migliori caratteristiche, la resistenza all’impatto, lo rende ad esempio ideale per realizzare oggetti che possono venire sottoposti ad urti. In basso, un eloquente esempio applicativo legato alla costruzione di droni.

Applicazioni del PETG

Bumper per droni, design di Otto

I ridotti ritiri, che implicano minime deformazioni e praticamente zero warping, ne fanno un materiale di elezione per stampe di grandi oggetti, anche assemblati in più parti, che debbano resistere a sforzi considerevoli.

Fiocco appendiabiti

Fiocco, un appendiabiti disegnato dall’Architetto Marco Rubini

Nell’immagine in alto, un appendiabiti ispirato ai cotton fioc, altezza 1,60 mt. circa, disegnato da Marco Rubini, stampato con RaiseN2 Plus.

Stampare al meglio il PETG

Come per tutti i materiali, è necessario prendere nota di qualche accorgimento specifico per trattare il PETG. Ogni volta che proviamo un nuovo filamento, raramente i risultati sono quello che ci aspettiamo. Questa plastica non è diversa dalle altre: avremo bisogno di un po’ di pratica per ottenere il meglio.

Qualche volta il PETG può richiedere impostazioni più “calibrate”. È solo un po’ più particolare rispetto a materiali meno esigenti da questo punto di vista, come il PLA. Non si può dire che sia difficile da usare, ci vuole solo un po’ più di pazienza nella regolazione dei parametri.

Una volta messi a punto, la stampa del PETG è un sogno. Nessun odore, nessuna deformazione ed una potente adesione inter layer sono solo alcune delle eccellenti proprietà di questo materiale. Scegliendo una marca di buona qualità, si tratterà soprattutto di regolare accuratamente la temperatura e il gioco è fatto.

Alcuni suggerimenti possono comunque risultare utili per ridurre tentativi e frustrazioni. Vediamo quali sono i punti principali per ottenere sin dalle prime prove buone stampe.

  1. Regolare accuratamente la temperatura. I primi tentativi possono essere effettuati tra 235 e 240°, a seconda del tipo di estorsore. Per il piano di lavoro, può essere impostato tra i 70 e 75°, ove necessario con qualche grado in più per i primi layer
  2. Questo materiale non deve essere schiacciato sul piano di lavoro durante il primo strato. È conveniente iniziare la stampa con una certa distanza tra ugello e piano di lavoro, per lasciare un adeguato spazio per la deposizione del materiale. Se l’ugello è troppo vicino al piano, si possono creare su quest’ultimo dei depositi che verranno successivamente trascinati sulla stampa, danneggiandola.
  3. Raffreddamento: se si punta ad ottenere un modello più robusto possibile, la ventola dovrebbe essere spenta. Il PETG diffuso aderisce allo stato precedente in un modo incredibile. Ma se si vogliono ottenere dettagli più nitidi, allora la ventola deve essere accesa al 100%. Un raffreddamento rapido del materiale appena depositato consentirà di ottenere una stampa più pulita, senza la creazione di sottili filamenti, che è un po’ il cruccio di questo materiale. Eventualmente, la ventola può essere lasciata spenta per i primi due o tre layer per una migliore adesione al piano.
  4. Il PETG richiede una velocità di stampa leggermente inferiore rispetto al PLA. Si suggerisce di non superare 55 mm secondo, limite oltre il quale il filamento potrebbe non venire estruso abbastanza rapidamente.
  5. La sovra estrusione può essere un problema per il PETG (blobbing etc.). Se si sperimentano problemi di questo tipo, è conveniente ridurre progressivamente il flow rate fino ad eliminarli. Una volta raggiunto il risultato il valore di flow rate ottimale potrà essere salvato il profilo di stampa.

    Informazioni più generali sulla messa a punto dei parametri sono reperibili nella Guida ai parametri di stampa.

Oggetti in PETG

Alcuni oggetti in PETG stampati da Joseph Casha

In breve, il PETG sicuramente merita, per le sue interessanti proprietà, un posto nell’arsenale dei nostri filamenti. La messa a punto dei parametri è leggermente complicata all’inizio, ma una volta definiti i profili i risultati successivi sono garantiti.

IdeaMaker, lo slicer gratuito sviluppato da Raise3D

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Slicer a confronto

IdeaMaker è uno Slicer. Ovveroun programma che “affetta” un modello sorgente, e calcola il percorso di deposizione del materiale in relazione alla forma delle varie sezioni, per poter pilotare una stampante 3D.

Mi è capitato, si, mi è capitato, di sentire parlare di “affettatura” nel software di una stampante DLP, per giunta Italiana. Non faccio nomi per compassione. Tragico, ma a ben vedere, questo è il lavoro di uno slicer. E’ chiamato a suddividere un modello in strati di spessore definito, e a partire da questi dati, si incarica di stabilire come, dove, quando, con quale velocità, temperatura, pressione etc. il materiale verrà estruso, per fare in modo che il risultato finale corrisponda al nostro modello di partenza. Semplice nel concetto, complicato, anzi complicatissimo nella applicazione pratica, volendo approfondire tutti gli aspetti.

Lo Slicer somiglia, anzi è uno stretto parente dei programmi CAM, usati per pilotare le macchine a controllo numerico, che lavorano per asportazione anziché per aggiunta di materiale. Con i software CAM, gli slicer condividono (in generale) il fatto che l’output finale è costituito da una sequenza di codici – che determinano il tipo di azione – con associati parametri che determinano l’entità di quella azione. Nel 95% dei casi, il formato di questi comandi è di tipo GCode, una codifica che appunto è molto simile agli analoghi programmi-macchina usati nel controllo numerico.

Allora, se la stragrande maggioranze degli slicer produce un codice topologicamente simile, dov’è la differenza? Perché dovremmo sceglierne uno anziché un altro? In una parola, per la loro “furbizia”. Se avete mai provato a tagliare l’erba di un prato con una tosaerba, vi sarete resi conto che ci sono molti modi di affrontare la cosa. Per linee verticali, per linee orizzontali o diagonali, prima il bordo esterno, per percorsi concentrici… La varietà è infinita. Ma non tutti i percorsi possibili comportano la stessa efficienza, lo stesso tempo. Anzi. Una misura della qualità degli slicer è proprio questa. L’efficacia del percorso, la quantità dei movimenti a vuoto, la possibilità o meno di variare la velocità o accuratezza riguardo a frammenti del percorso “strategici” (es. quelli esterni), etc.
L’immagine in basso chiarisce bene il concetto di “furbizia” quando si tratta di escogitare percorsi di “azione”.

taglio del prato

Nell’immagine, una divertente soluzione per il taglio del prato “automatico”. La corda, avvolgendosi su un cilindro, fa muovere il tosaerba su spirali concentriche.

Ma non solo. Il taglio del prato è una operazione in qualche modo bidimensionale. Noi abbiamo a che fare con un modello 3D. Con altre problematiche, esempio la gestione dei supporti, l’eventuale possibilità di usare più estrusori con diversi materiali, la gestione della corretta adesione (non troppo poca – non troppa) del modello al piano di lavoro, e così via.

La disponibilità di diversi Slicer (per la maggior parte delle macchine, salvo quelle obbligate ad usare uno slicer proprietario), contraddistinti da diverse potenzialità, è una chance. La logica vorrebbe che chi intende stampare al meglio, ne provasse più d’uno (tendenzialmente, tutti) per individuare quello più adatto alle proprie esigenze. Ma nella pratica, cambiare Slicer è un po’ come cambiare lingua. Almeno i primi tempi è necessario imparare il vocabolario, la grammatica, la sintassi. Si capisce poco di quanto si ascolta, e la conversazione è impacciata. Così, ho pensato di scrivere una serie di guide introduttive, con le quali si possa almeno familiarizzare con le principali caratteristiche e prestazioni dei vari programmi, prima di sperimentarli.

Questo mi auguro possa alleviare le frustrazioni alle quali si potrebbe andare incontro dopo aver individuato parametri soddisfacenti con un programma, nella sperimentazione di un programma differente.

Bene. Prima di passare alla recensione delle varie soluzioni disponibili (che richiederà ovviamente altri articoli a seguire), cercherò in questo contesto di fissare i concetti base di uno Slicer, definire una terminologia di riferimento e i criteri in base ai quali le varie soluzioni possono venire comparate.
Tanto per non avviare una noiosa argomentazione solo “teorica”, ho pensato già in questa fase di illustrazione di concetti e criteri di introdurre un soggetto “reale”, uno slicer esistente. IdeaMaker – sviluppato da Raise3D. Mi è utile, anche ai fini discorsivi, un immediato raffronto tra una certa funzione e come (e se) questa viene implementata dallo slicer in questione.

Negli articoli successivi farò la stessa cosa per altri prodotti, e al termine della serie cercherò – nei limiti del possibile – di compilare una tabella di confronto.

Ed ora, visto che l’ho scelto come “campione di riferimento” per soppesare l’importanza o meno delle diverse caratteristiche e funzionalità, inizio con una succinta “carta d’identità” di IdeaMaker:

Nome commercialeIdeaMaker
Versione attuale2.5 (19/03/2017)
ProduttoreRaise3D
LicenzaFree
LingueInglese, Tedesco, Russo, Francese
OutputGCode
S.O.Windows, Mac, Linux
Codice64bit Multicore
MultiestrusoreSi
Supporto reteSi

Fatta questa breve presentazione, passiamo ad esaminare i vari elementi che caratterizzano uno Slicer, e vediamo come ssi comporta il nostro campione al riguardo.

Importazione del modello – formati supportati

Più lingue si conoscono, meglio è. Così, nel valutare uno Slicer, si può considerare la sua capacità di importare formati differenti. Nella maggior parte dei casi, sono presenti al minimo i formati base (STL ed OBJ), ma alcuni software sono in grado di importare anche altri formati (poligonali) come ad esempio DXF3D e 3DS. Al di la del puro numero di formati compatibili, è importante la qualità di importazione, e la conformità agli standard di riferimento.

Alcuni slicer consentono, oltre all’importazione, anche l’esportazione dei modelli. Questa funzionalità è utile se il modello è stato manipolato all’interno dello slicer (es. diviso in più parti). Nella fattispecie, IdeaMaker può importare modelli in STL e Obj, ed esportare in STL.

Utility di riparazione dei problemi topologici

Gli Slicer “più rifiniti” consentono non soltanto l’importazione Tout-Court, ma entrano nel merito della validazione del modello. Sono in grado di rilevare problemi topologici, di segnalarne l’esistenza e, attraverso routine di riparazione più o meno sofisticate, di “bonificare” all’occorrenza il nostro modello. Questa caratteristica è importante. Molti modelli prelevati online, realizzati senza troppa attenzione, presentano errori strutturali. Se lo Slicer non se ne accorge, rischiamo di avviare una stampa (magari particolarmente lunga) che non andrà a buon fine, o produrrà risultati imprevedibili. La presenza di strumenti che possano garantirci la validità del modello, ed eventualmente risolvere gli errori (fori, facce sovrapposte, vertici isolati etc.) è molto importante.
Il software che stavolta abbiamo preso in esame è abbastanza ricco, da questo punto di vista. Prevede sia la possibilità di utilizzare specifici comandi di riparazione, si una procedura totalmente automatica di bonifica, che effettua tutti i passaggi necessari per rendere il modello stampabile.

Riparazione file con IdeaMaker

Le diverse possibilità di riparazione file di IdeaMaker

Possibilità di manipolazione dopo l’importazione

E se il modello che abbiamo importato (magari scaricato da Internet) è troppo grande, troppo piccolo, o orientato male? Un buon software di slicing ci dovrebbe consentire di intervenire. Nel modo più comodo possibile, senza imporci l’uso di un programma CAD esterno.
Per fortuna, sono quasi sempre presenti i classici tre comandi di manipolazione (Sposta, Scala, Ruota). Ma in alcuni casi, ad esempio la scala è possibile solo in percentuale. In altri casi, può avvenire in percentuale o in valori assoluti (dimensioni), con la possibilità di scala uniforme o meno, la conversione automatica pollici-millimetri e viceversa, etc. Insomma, più possibilità di parametrizzazione consentono un migliore controllo.

Ma vediamo nel dettaglio tutte le varie possibilità offerte da IdeaMaker nel menu “Model”:

Menu Model

L’elenco delle possibilità è abbastanza ampio. I primi due comandi (Pan e View) controllano sostanzialmente la visualizzazione, e sono accessibili anche dalla barra delle icone. Pan consente una panoramica bidimensionale, mentre View attiva la navigazione 3D del modello nell’area di lavoro.

Move

consente lo spostamento del modello sui tre assi, tramite un trascinatore grafico interattivo azionabile con il mouse, o in millimetri. Include la possibilità di convertire il modello in pollici  (o millimetri), di centrarlo, e di adagiarlo sulla piattaforma.

comando Move

Se sono state importate due componenti dello stesso oggetto (esempio per stamparle con due diversi colori), il controllo Align le ricolloca nella  reciproca posizione originaria.

Rotate

Anche in questo caso, il comando di rotazione si distingue per le sue potenzialità rispetto a comandi analoghi di altri Slicer.

Nella modalità globale (World) la rotazione può avvenire sui tre assi primari (XYZ), a scatti di 90° con le frecce a destra (comodo per un rapido posizionamento del modello sul lato più comodo), o specificando i gradi.

Rotazione Roll

Nella modalità Local (difficile trovarla in altri software), la rotazione avviene sugli assi locali, anche in questo caso con passo 90° o con un valore arbitrario. In aggiunta, è possibile intervenire direttamente con il mouse sul controllo grafico. Nell’immagine, una rotazione locale:

Rotazione locale con controllo grafico

Scale

Questo comando permette di variare la scala del modello. Il controllo può essere interattivo (via mouse), in millimetri o in percentuale. Il comando include la conversione automatica da millimetri a pollici e viceversa.

Comando scala

Il ridimensionamento può essere uniforme (sui tre assi) o meno.

Free Cut

Suddivisione con IdeaMaker

Suddivisione di un oggetto con IdeaMaker. Può essere effettuata con piani con angolazioni arbitrarie.

Questo comando offre la possibilità di separare più oggetti importati nel medesimo file in oggetti singoli, o di “tagliare” il modello. Nel primo caso, potrebbe essere utile ad esempio per disporre in modo più ottimizzato gli elementi. Nel secondo caso, tagliare gli oggetti può consentire di stampare modelli più grandi del volume utile, in parti. Il taglio può avvenire su piani paralleli ai piani standard (XYZ) o anche per piani arbitrari.

Cross section

Questo non è in realtà un comando per la manipolazione, ma per  l’esplorazione del modello. Consente di attivare un piano di taglio utilizzando il quale è possibile ispezionare la struttura interna.

Piano di taglio

 

Come abbiamo visto prima nell’immagine del menu Model, ci sono molti altri comandi oltre quelli dei quali abbiamo parlato. Vediamoli in breve. Molti comandi sono piuttosto semplici da utilizzare, e non richiedono obbligatoriamente l’uso di immagini per chiarirne il funzionamento.

  • Mirror – Permette di creare una copia speculare dell’oggetto selezionato, rispetto agli assi X, Y o Z. Una riflessione sull’asse Z sostanzialmente capovolge l’oggetto.
  • Center – La selezione viene collocata al centro dell’area di stampa.
  • Lay Flat – Selezionando questo comando, la vista passa dalla modalità rendering alla modalità wireframe, in modo che risultino visibili i singoli poligoni. Selezionando un poligono e premendo Apply, il modello viene orientato in modo che il poligono (e di conseguenza l’intero oggetto) venga allineato sul piano di stampa.

    Lay flat

  • Auto Fit to Build Volume – La selezione viene scalata in modo che venga sfruttato l’intero volume utile della stampante. Può essere usato sia per ingrandire piccoli oggetti sino al massimo stampabile possibile, sia per l’opposto – ridurre le dimensioni di un oggetto molto grande affinché possa venire stampato in un sol pezzo.
  • Reset All – Riporta il modello alle condizioni originali (al momento dell’importazione), annullando tutte le modifiche.
  • Reset – Questo comando prevede dei sottomenu, per annullare selettivamente le modifiche (es. rotazione, scala, etc.).
  • Put All Models on Platform – Nel caso sia stato importato un modello che include più oggetti collocati a diverse altezze Z, li depone tutti sul piano di stampa.
  • Auto Ungroup – Nel caso sia stato importato un modello che include più oggetti, permette di separarli in oggetti singoli, es. per modificare la loro reciproca posizione, e sfruttare meglio l’area di stampa.
  • Merge Selected Models – Fonde tutti gli oggetti selezionati in un unico modello. In seguito, verranno interessati da eventuali trasformazioni (es. riflessione, rotazione) come se si trattasse di un corpo unico.
  • Align Selected Models – Qualora due elementi dello stesso modello da stampare con diversi estrusori vengano importati separatamente, IdeaMaker, che non può intuire questo intento, li colloca nello spazio come se si trattasse di due diversi oggetti, a debita distanza l’uno dall’altro. Per fare in modo che i due frammenti vengano ricomposti insieme, si può usare questo comando. Gli oggetti restano separati tra loro (questo è necessario per poterli trattare diversamente), ma la loro posizione reciproca risulterà corretta.

Ci siamo. Qualcuno avrà notato che non è stata trattata la voce Support Structure. La gestione supporti è particolarmente importante, mi ripromettevo di parlarne approfonditamente a parte.

Profili

E’ difficile ricordare l’insieme di parametri utilizzati in una particolare situazione, che hanno prodotto una stampa ottimale. Per questo motivo, la maggior parte degli Slicer consente di salvare i profili (l’insieme di parametri). In alcuni casi, sono disponibili profili distinti (es. per Qualità e per Filamento). IdeaMaker consente di assegnare ai filamenti un profilo (nel quale è possibile indicare il nome, diametro, densità, prezzo e flowrate), e di creare profili separati sia per la macchina, sia per il processo. Per quanto riguarda la macchina, il profilo contiene informazioni quali diametro ugello, corse utili, numero estrusori, step per mm., compensazione assi X e Y. La presenza di questi due campi è molto importante, e permette, una volta stampato un cubo di riferimento, di compensare le eventuali tolleranze rispetto alle dimensioni del modello dovute al ritiro dei materiali.
Per i parametri specifici di processo controllabili attraverso i profili si può far riferimento alla sezione Interfaccia – Parametri avanzati seguente.
Una semplice, ma utile novità della versione 2.5 è la possibilità di modificare un profilo ed utilizzarlo per lo slicing senza necessariamente doverlo salvare. Questa funzionalità evita l’eccessivo proliferare di profili nel caso di piccole modifiche.

Template IdeaMaker

Nel calcolo del file NG da inviare alla macchina, vengono utilizzato un template, che include il profilo macchina, il profilo/i filamento e il profilo della lavorazione.

L’interfaccia di IdeaMaker

Molti Slicer prevedono una doppia interfaccia: Base e Avanzata. In quella base è generalmente sufficiente selezionare la qualità, il materiale, il riempimento e il tipo di supporti. Nel caso di IdeaMaker, i parametri base sono davvero essenziali, e permettono di avviare il calcolo con pochissimi clic.

Interfaccia base

Nei parametri avanzati è possibile effettuare interventi più di dettaglio (es. velocità, temperature, ventola, spessore pareti, tipo di riempimento etc.). Anche se avere a che fare con un’interfaccia che prevede molti parametri può apparire più complesso, più ce ne sono e meglio è.
Il controllo, ove occorra esercitarlo, sarà maggiore, consentendoci di affrontare anche situazioni particolari.

I parametri avanzati di IdeaMaker sono suddivisi in 8 diverse schede. Per quanto riguarda la scheda Layer, è interessante la possibilità di utilizzare un estrusore a scelta per lo Skirt/Brim, e i controlli dettagliati per il primo strato, che includono altezza, velocità e flow rate dell’estrusione.

Scheda Infill

Anche per il riempimento, è possibile selezionare l’estrusore, controllare il tipo di struttura (linee e griglia), e la densità/velocità/flow rate della base e della parte superiore del modello.
Alcuni Slicer consentono ulteriori modalità di riempimento (es. nido d’ape, triangoli etc.), che talvolta possono rivelarsi utili. Anche per quanto riguarda le superfici piane inferiore e superiore, possono offrire maggiori possibilità rispetto ad IdeaMaker, ad esempio un riempimento con offset o la possibilità di variare gli angoli di deposizione degli strati.

Scheda supporti

La scheda supporti è piuttosto completa. Consente di selezionare l’estrusore (magari per supporti solubili) e il tipo/riempimento. Le modalità sono due: supporti normali e a pilastro. Sotto controllo la distanza dei supporti dagli altri elementi (es. Raft-modello), sia in senso orizzontale che verticale. Questo permette, in base al materiale, di ottenere comunque dei sostegni che siano contemporaneamente robusti e facilmente rimovibili. Il riquadro “Dense support” permette di deporre un numero arbitrario di strati con un passo laterale ravvicinato prima dell’approssimarsi delle superfici da supportare, a vantaggio della qualità. L’angolo in questo caso può essere regolato.

Scheda Raft

Scheda Raft

Il Raft è totalmente sotto controllo, sia per quanto riguarda la sua geometria (numero e tipo di strati), sia per ciò che concerne velocità, flow rate, densità dell’interfaccia e distanza interfaccia-modello. La disponibilità di molti parametri permette di regolare la forza di adesione necessaria a trattenere il modello riducendo i rischi di distacco, e a consentire una agevole successiva separazione.

Cooling

Scheda cooling

Forse avrei usato un altro nome per questa scheda. Il titolo fa pensare semplicemente al raffreddamento, mentre in realtà permette di controllare anche le temperature, uno dei parametri più importanti della stampa 3D. Ovviamente queste possono essere diverse per i due estrusori. Il raffreddamento è gestito abbastanza bene, con la possibilità di attivare diverse velocità della ventola in relazione a specifici layer. Sarebbe interessante avere la stessa possibilità per il piano riscaldato: per alcuni materiali, è sufficiente che rimanga acceso solo nella fase iniziale della stampa.

Ooze

Scheda ooze

La bestia nera della stampa con doppio estrusore è l’oozing: la tendenza del materiale a fuoriuscire comunque, anche quando non sollecitato, dall’estrusore quando è caldo e inutilizzato.
Già, è ovvio che durante una stampa nella quale venga impiegato il secondo estrusore ad esempio per la costruzione di supporti, quest’ultimo deve rimanere acceso anche durante la deposizione del materiale del modello. Se dovessimo tenere acceso soltanto l’estrusore attivo in un certo momento i tempi di stampa si allungherebbero all’infinito. D’altro lato, da un estrusore mantenuto a temperatura di lavoro una certa quantità di materiale fuoriesce comunque.
Questo materiale va a “sporcare” indifferentemente sia il modello sia i supporti. Per aggirare il problema esistono diversi metodi, che fondamentalmente sono basati su cicli di pulizia effettuati ciclicamente su un oggetto d’appoggio appositamente creato allo scopo. Nel caso di IdeaMaker la questione viene affrontata generando una sorta di sarcofago attorno al modello, ad una distanza predefinita, costruito alternativamente con il primo e il secondo estrusore. La forma di questo “schermo” può essere selezionata tra Contoured (una superficie di offset che ricalca la forma del modello), Waterfall (somigliante ad una cascata), e Vertical (una semplice parete verticale che circonda il modello). Nell’insieme, un metodo abbastanza efficiente. Dal momento che la quantità di materiale che fuoriesce dall’estrusore inutilizzato dipende strettamente dalla velocità e dall’ammontare della rifrazione, questi parametri sono controllabili all’interno di questa scheda.

Scheda Other

Scheda Other

La scheda Other, come era logico aspettarsi, racchiude tutte quelle impostazioni che non trovano posto altrove. Troviamo (come in molti altri programmi) il controllo Spiralize, per stampare soltanto una singola parete esterna del modello. Interessante, per questo scopo, la possibilità di specificare lo spessore della parete. Ma anche la possibilità, altrettanto diffusa, di introdurre pause (che consentono operazioni di controllo, inserimenti di componenti all’interno delle stampe etc.). Interessante la possibilità di definire offset globali. Manovrando opportunamente questi controlli, un singolo oggetto può essere stampato con due job diversi (es. uno spessore layer sino ad una certa altezza, e uno spessore differente per la parte rimanente, etc.).

Scheda GCode

Scheda GCode

Un classico per gli arditi, i perfezionisti e i maker, questa scheda permette di aggiungere specifici comandi in linguaggio macchina da eseguire prima e dopo un lavoro di stampa. I comandi standard sono piuttosto efficaci, ed includono l’homing degli assi, una prima estrusione a vuoto per accertarsi che il materiale possa effettivamente fuoriuscire sin dall’inizio della stampa, e un movimento che tende a spezzare il filamento inizialmente estruso in questa fase.

Altri aspetti che riguardano l’interfaccia sono legati alla modalità con la quale viene visualizzato il modello, e alla qualità del rendering. Da questo punto di vista, IdeaMaker offre una elevata resa grafica, e la navigazione 3D risulta particolarmente veloce. L’interfaccia è inoltre particolarmente curata per quanto riguarda lo schermo LCD delle stampanti Raise3D, con le quali viene generalmente utilizzato questo slicer. Nel file macchina salvato, viene incluso un rendering del modello, utilizzato per evidenziare, sia sullo schermo della stampante, sia su quello del PC collegato in rete, lo stato di avanzamento.

Schermo Raise3D con rendering

Velocità di calcolo del percorso di deposizione

Molti Slicer sono basati su architetture a 32 bit. Altri, quelli più evoluti, sono a 64 bit. Oltre a questo fattore, determinante per la velocità di calcolo, ovviamente anche la qualità degli algoritmi utilizzati ha la sua importanza. Senza citare almeno in questa fase nomi, ci sono differenze rilevanti da questo punto di vista tra un programma e l’altro: gli slicer più veloci impiegano anche 20 volte meno tempo rispetto ai più lenti. IdeaMaker è basato su un’architettura  a 64 bit nativa, utilizza il multiprocessing e fa indubbiamente parte della categoria degli Slicer veloci. La quantità di core coinvolta nel calcolo può essere specificata, in modo da ripartire le risorse di calcolo con altri eventuali processi concorrenti.

Supporti

Uno degli aspetti più importanti nella valutazione della bontà o meno di uno Slicer è la qualità con la quale vengono inseriti i supporti. In molti casi, la generazione è automatica, ma subordinata ad alcuni parametri (es. angolo, geometria, densità, estrusore/materiale etc.). Alcuni Slicer, tra cui IdeaMaker, consentono anche la collocazione manuale e l’eventuale rimozione manuale dei supporti.

Supporti manuali con IdeaMaker

Per approfondimenti generici sui supporti e sulle basi, potete consultare le guide:

Nello specifico, riguardo ad IdeaMaker, la gestione supporti/basi è piuttosto articolata e i risultati ottenibili appaiono più che soddisfacenti. Nel video al link seguente, si può constare sia l’efficacia, sia la semplicità di rimozione.

Anteprima

La possibilità di vedere in dettaglio cosa accadrà durante la stampa è straordinariamente importante. Più o meno bene, tutti gli Slicer consentono di esaminare un’anteprima di stampa.

Anteprima IdeaMaker

Nell’immagine, l’anteprima di IdeaMaker. I cursori Layers e Steps permettono rispettivamente di esaminare una particolare sezione (con la rimanente parte già stampata o da sola, a seconda se sia attivo o meno il controllo Only Current Layer), oppure il progresso, comando per comando, nell’ambito di un singolo layer. Sono opzionalmente visibili le ritrazioni e i trasferimenti a vuoto.

Controllo della stampa in remoto

Una delle funzioni più interessanti di IdeaMaker è legata al supporto che offre verso reti WiFi ed Ethernet, quando impiegato con stampanti Raise3D.

Il supporto include la possibilità di inviare il file alla memoria locale della macchina via rete, e il controllo completo di tutte le fasi di stampa attraverso il collegamento con il PC. In questa fase l’operatore può interagire con la macchina in remoto, intervenendo ove necessario in tempo reale su parametri quali le temperature dei due estrusori e del piano, la velocità di stampa, il regime della ventola e il flow rate degli estrusori.
Nel caso si utilizzino altre macchine, il collegamento al PC può essere effettuato via cavo USB.

Conclusioni

Gli Slicer sono per loro natura (essendo software) – soggetti ad una continua evoluzione. Tempo permettendo, periodicamente varrebbe la pena di valutare alternative rispetto al prodotto che si sta utilizzando correntemente, anche riesaminando programmi che erano in origine stati scartati. Potrebbero essere state apportate migliorie significative, e potrebbe valere la pena di utilizzarli, almeno in certe circostanze.

Rispetto ad IdeaMaker, il mio personale verdetto finale è positivo. Si tratta di uno Slicer moderno, particolarmente ricco di funzioni e controlli, ma nello stesso tempo molto semplice ed intuitivo da utilizzare. IdeaMaker è gratuito e può essere scaricato dal sito www.raise3D.com.

 

 

 

Proton, un altro progetto di stampante 3D autocostruita

Pietro Meloni DIY, Stampa 3D 0 Comments

 

Visto il successo tra gli appassionati del progetto Neutron, pubblico volentieri un nuovo articolo con le informazioni per autocostruire una stampante 3D (questa volta, si chiama Proton ed è cartesiana).

Ancora una volta preciso che la costruzione artigianale di una stampante non è un modo per risparmiare, né consente di ottenere le stesse prestazioni di una macchina industriale pronta all’uso. E’ qualcosa di profondamente diverso, che regala emozioni di tutt’altro genere. Chi punta a disporre di una macchina affidabile, accurata, che produce una qualità di stampa costante,  fa bene ad acquistare uno dei tanti consolidati prodotti plug&play.
La costruzione di una stampante è un processo molto simile alla composizione di un puzzle. Lo scopo non è quello di ottenere una bella immagine finale. In questo caso, meglio comprare una stampa. Lo scopo è quello, magari arrovellandosi, di mettere insieme i pezzi. Arrivare alla fine. Vedere una macchina che si muove e stampa – secondo quanto previsto. La qualità dei modelli ottenibili è – e deve essere – assolutamente secondaria. Il risparmio è ininfluente. Magari costerà anche di più. Bruceremo un’elettronica perché abbiamo collegato dei fili invertiti. Ci sembrerà che le istruzioni non spieghino a sufficienza come assemblare il tutto. Dovremo riuscire ad interpretarle, a cavarcela.
C’è un filo di masochismo in tutto questo, ma è il valore aggiunto di una operazione del genere. Questa esperienza ci renderà critici, ci permetterà di (o almeno provare a) escogitare modifiche migliorative.
Insomma, qualcosa che ha un sapore del tutto diverso dall’aprire una scatola, e in pochi minuti mettere in funzione un macchinario già perfettamente funzionante ed operativo.

Stampante 3D Proton

Prima di andare oltre, per congelare da un lato le acide critiche dei Social, e rispondere a qualche futura domanda, preciso che ShareMind non vende componenti per la realizzazione di questa macchina, non ha interessi commerciali affinché venga realizzata (anzi), e non ha preso in alcun modo parte al progetto. Semplicemente, avendo goduto in passato dell’ebbrezza di vedere una propria costruzione animarsi e funzionare, ho il piacere di condividere questa piacevole esperienza.

Proton è una stampante davvero singolare, con diverse caratteristiche univoche rispetto alle architetture convenzionali. Si ispira apparentemente ad una fresatrice a ginocchio, con una tavola in grado di scorrere sull’asse X e un gruppo estrusore che scorre sull’asse Y, e si muove sull’asse Z.
Singolare, se non esclusivo, l’azionamento del pignone del gruppo di stampa, attraverso una guida lineare utilizzata anche come strumento di trasmissione del moto.

 

Perché costruirla, quando esistono molti altri progetti magari orientati alla realizzazione di macchine più performanti? Perché introduce spunti, “scosse” progettuali non convenzionali, che possono aiutarci a sviluppare la fantasia o lo spirito critico riguardo a diverse soluzioni architetturali. E’ un bell’esercizio, che può permetterci di riutilizzare elettroniche e componenti meccanici in una chiave diversa, e costituire uno spunto per sviluppare (magari) un nuovo, originale progetto. Proton è questo. Sostanzialmente, uno stimolo per la creatività. Cosa nient’affatto trascurabile, in un contesto nel quale ormai anche gli arrivati dell’ultima ora pretendono di sapere (e suggerire) tutto.

Buon divertimento.

Spero che i makers che aderiranno al progetto Proton vogliano condividere i loro risultati, quali che siano, con la comunità degli appassionati.
Naturalmente, come sempre resto a disposizione per qualsiasi supporto si rendesse necessario.

Proton 3D printer By LayerOne

 

Neutron, la stampante 3D che potete stamparvi da soli

Pietro Meloni DIY 0 Comments

 

Chi è Neutron? Lo spiegherò dopo una breve premessa.

Personalmente non amo troppo le stampanti a basso costo di provenienza orientale. Soprattutto per i neofiti che intendono avvicinarsi alla stampa 3D, rappresentano una pessima scelta. Perché? Il motivo è semplice. Immaginate un bambino che vuole imparare a suonare il violino. I genitori, conoscendo la volubilità tipica dell’età, decidono di comprargli un violino cinese. Il bambino non suonerà mai. Lo strumento non è in grado di produrre un suono gradevole, neanche nelle mani di un talentuoso violinista. Un bambino non ha nessuna probabilità di emettere note decenti.

La stessa cosa accade a chi intraprende l’avventura della stampa 3D con uno strumento impreciso, che necessita di continue regolazioni, e che anche nella migliore delle ipotesi produce una qualità di stampa appena mediocre.

Cosa ben diversa è la costruzione di un kit. In questo caso, l’aspettativa è molto diversa. Non si punta tanto ad ottenere delle stampe di qualità, ma a fare in modo che un progetto funzioni. Il risultato apparentemente modesto degli assi che si muovono in una direzione corretta, l’estrusore che si scalda, il display che si accende producono una grande soddisfazione. Come dicono i veri amanti dei viaggi, il bello non è arrivare, ma lo stesso viaggiare.

La stampante Neutron

Meglio ancora se, anziché acquistare tutti i componenti necessari in un kit pronto per l’assemblaggio, si può acquistare il minimo necessario ed integrarlo con parchi che abbiamo costruito noi stessi. Questo è il caso di Neutron. Si tratta di un kit minimalista reso disponibile da Layer One, il produttore della più ambita stampante delta sul mercato, la Atom.

Componenti del kit Neutron

Questa azienda, costituita da giovani ingegneri appassionati del proprio lavoro, è forse quella che interpreta al meglio lo spirito del maker, in una chiave che premia la qualità del risultato.

Mi auguro che il progetto Neutron, ideale per scopi didattici, vi piaccia. E che la sua costruzione vi dia la soddisfazione che merita l’impegno.
Spero che qualcuno pubblichi a breve i risultati ottenuti, il resto fin da ora a disposizione di chi dovesse trovarsi in difficoltà nelle varie fasi della costruzione.
Mi auguro che questo progetto, ideale per scopi didattici, vi piaccia. E che la sua costruzione vi dia la soddisfazione che merita l’impegno.
Spero che qualcuno pubblichi a breve i risultati ottenuti, il resto fin da ora a disposizione di chi dovesse trovarsi in difficoltà nelle varie fasi della costruzione.

File STL OnShape Licenza

Artec Leo: lo scanner che rivoluziona l'acquisizione di modelli 3D

Pietro Meloni Artec, Scansione 3D 0 Comments

 

Artec, leader mondiale nello sviluppo di soluzioni professionali per la scansione a brandeggio manuale, annuncia con orgoglio il nuovo Leo, primo scanner in grado di processare in modo autonomo il processo di acquisizione.

Con i modelli Artec EVA e Artec Spider e Space Spider, l’azienda aveva già affrontato con successo il problema della portabilità. Leggeri e maneggevoli, questi apparecchi – anche alimentabili a batteria, potevano venire comodamente gestiti con un notebook o un tablet PC anche in contesti non raggiunti da rete elettrica, come un sito archeologico.

Il progetto Leo si prefiggeva comunque un obiettivo più ambizioso: quello di rendere lo scanner ancora più “portatile” ed autonomo, e semplice da utilizzare come una comune videocamera.

Artec LEO

Il nuovo scanner Artec Leo

Il risultato raggiunto è uno strumento straordinario, che integra lo stato dell’arte della tecnologia di elaborazione delle immagini.

Una velocità di scansione impressionante

Il balzo in avanti rispetto alla serie precedente è incredibile. Si passa da 7,5 fotogrammi al secondo per lo Space Spider, ai 16 fotogrammi secondo dell’EVA, a ben 80 fotogrammi secondo, che fanno di Leo lo scanner manuale professionale più veloce sul mercato. Queste prestazioni, difficili da battere, sono state ottenute con un’elettronica estremamente sofisticata, che integra una NVIDIA® Jetson™, un processore TX1 Quad-core ARM® Cortex®, e un processore A57 MPCore NVIDIA Maxwell™ con una GPU da 1 TFLOPS con 256 core NVIDIA® CUDA®.

Un controllo totale

Notebook o tablet per il feedback della acquisizione in corso non sono più indispensabili. Artec Leo è infatti dotato di un ampio pannello LCD a colori, che consente di seguire direttamente la costruzione del modello 3D in tempo reale.

Artec LEO retro

La scansione non è mai stata così facile. Come filmare un video. Mentre il modello viene acquisito, è possibile controllare sullo schermo la qualità della ricostruzione, e quali parti sono eventualmente mancanti.
Dotato di batteria integrata nella base e di un capiente hard disk SSD, lo scanner è totalmente autonomo, e non richiede alcun collegamento con altri dispositivi.

Ottiche custom

La maggior parte degli scanner in commercio, inclusi quelli per applicazioni professionali, monta – a causa dei limitati quantitativi prodotti, delle ottiche standard già esistenti sul mercato, adattate allo scopo. Nel caso di Artec LEO le ottiche sono state invece progettate da zero, per ottenere prestazioni straordinarie. La camera di acquisizione 3D e la camera di acquisizione texture utilizzano la stessa lente, per ottenere una mappatura delle texture assolutamente precisa e perfetta.

Nessuna necessità di utilizzare target

Come per tutti gli scanner Artec, Leo utilizza una avanzata tecnologia ibrida geometria/texture, ed è sufficiente puntarlo sul soggetto da acquisire e premere il pulsante. Non è necessario perdere tempo per applicare target (e successivamente per rimuoverli!)

Leo sa sempre dove si trova

Artec Leo integra un sistema inerziale a 9 gradi di libertà, che include un accelerometro, un giroscopio ed un compasso. E’ l’unico scanner a brandeggio manuale che conosce in qualsiasi momento la propria posizione rispetto all’ambiente circostante, con la capacità di distinguere anche tra superfici orizzontali e verticali, come pavimenti e pareti.

Migliore cattura del colore

Con la tecnologia VCSEL a luce dirompente, Artec Leo è in grado di digitalizzare texture difficili da acquisire, inclusa la pelle, e può operare anche in ambienti esposti alla luce solare diretta. Questa tecnologia consente anche di regolare l’intensità del flash per migliorare ulteriormente la cattura del colore.

Prezzo:
22.700€

Scarica la brochure di Leo! Vai al prodotto

Artec 3D Scanners

are manufactured by Artec Group Inc

Recensione Cubicon 310F Single Plus: il nuovo punto di riferimento nelle stampanti 3D desktop

Pietro Meloni Stampa 3D 0 Comments

 

HyVision, giovane azienda Coreana già saldamente sul podio delle stampanti 3D Desktop di fascia prosumer con le sue Cubicon 110F Single e 210F Style, rimarca con prepotenza, presentando la nuova sua 310F Single Plus, che in questo mercato si può ancora, – e si deve – innovare.

Già. La cosa sembrerebbe ovvia. Ma da tempo, produttori saliti alla ribalta per la qualità ed affidabilità dei loro progetti sembrano essersi fermati. Nell’ultimo periodo, sembra accadere quello che accade nei periodi di stanca del mercato automobilistico. Vetture col tetto bicolore, versioni “speciali” con nomi di cantanti, tennisti, e la proliferazione di appellativi come executive, limited, exclusive… Per nascondere la carenza di idee e rinvigorire le vendite di modelli in caduta libera. Fino al tonfo di una stampante in cui sono aumentate solo le dimensioni (e il nome, di cento unità), con tutti i problemi che derivano dalla semplice applicazione di una scala tridimensionale.

Ebbene, in questo panorama deludente, HyVision ridisegna – tranne alcuni aspetti della carrozzeria – la già ottima 110 Single con una meccanica ed elettronica innovative, aggiungendo funzionalità e caratteristiche che conferiscono alla nuova 310F Single Plus la  meritata patente di un prodotto professionale.

Ma vediamola in dettaglio.

Cubicon 310F

Un design accurato

Già al primo sguardo si intuisce la meticolosità con la quale il progetto è stato industrializzato. Gli elementi estetici della carrozzeria (che è disponibile in due colori – canna di fucile e bianco) sono stampati ad iniezione. Il pannello superiore è trattato con un piacevole rivestimento soft-touch. Il design è sobrio e funzionale, con una comoda accessibilità garantita da tre diversi sportelli. Il nuovo pannello LDC a colori touch screen, inclinato di 45 gradi, utilizza icone chiare ed è ben leggibile da qualsiasi angolazione. La bobina è interna, ma molto facilmente accessibile, come il filtro frontale.

310 Design

L’interfaccia, basata nella versione 110F su un pannello monocromatico ed un classico Jog, è stata totalmente rivista, con l’adozione di un ampio schermo LCD a colori touch screen. Ma non è soltanto l’adozione di un hardware più moderno e piacevole a fare la differenza. Nell’uso del nuovo pannello si può apprezzare la cura con la quale è stata scelta la grafica, per semplificare e rendere più facilmente comprensibili le azioni ed i comandi. Questa è la differenza tra il semplice “assemblare”, e il più complesso “progettare”. Il pannello della Cubicon 310f risulta, per qualsiasi operazione si debba compiere, incredibilmente facile da usare, tanto da rendere pressoché inutile il (ben fatto) manuale di istruzioni.

Il pannello LCD touch screen della 310F

Ma veniamo a quello che molti (me compreso), considerano “il sodo”.

L’estrusore della macchina, anche se sembrava difficile, migliorato rispetto a quello della 110F Single, è rigorosamente intercambiabile. L’intero gruppo di stampa può essere rimosso e sostituito con una sola vite, apribile con una semplice moneta. Questo consente ad esempio di utilizzare più estrusori nel caso si impieghino materiali incompatibili tra loro, che tendono a formare composti in grado di intasare l’ugello. O, in circostanze estreme, di mettere in pausa la stampa e sostituire un estrusore in pochi secondi, per riprendere il lavoro. Preziosa soluzione per un service, che ha tempi di consegna da rispettare e non si può permettere lunghi interventi di riparazione meccanica. Il gruppo è inoltre estremamente versatile, e progettato per stampare con la stessa qualità materiali per medio-alte temperature (es. ABS), materiali per basse temperature ed alte viscosità (es. PLA) ed elastomeri. Il percorso filo, totalmente guidato, consente di stampare filamenti elastici anche particolarmente morbidi senza problemi.

Il sistema di raffreddamento è eccellente. Il flusso d’aria circonda completamente l’ugello, senza però influenzarlo. Questa caratteristica consente di stampare anche superfici particolarmente piccole isolate, senza incorrere nel rischio di deformazioni e bruciature. Oltre alla illuminazione LED generale della camera di lavoro (con un piacevole colore blu), anche l’estrusore è illuminato, per migliorare la visibilità dell’area in corso di stampa.

Estrusore_310f

Autoleveling Cubicon 310FNaturalmente non poteva mancare nella 310F una delle caratteristiche che ha distinto le Cubicon dal “coro” delle stampanti 3D desktop: il piano di lavoro dotato di funzionalità Autoleveling Plus. Funzionalità che – tanto per cambiare – è stata ulteriormente migliorata in questo modello.

Il principio è geniale. Il piano (totalmente privo di viti di regolazione) è incernierato sul punto medio centrale posteriore, tramite un giunto sferico ad altezza fissa. Gli altri due punti di appoggio (frontale destro e frontale sinistro) sono anch’essi su giunti sferici, ma controllati da servomotori.

L’Hot End, montato su molle, è collegato ad un accuratissimo trasduttore, e viene utilizzato per rilevare, con una serie di contatti dei quali il firmware calcola la media, l’altezza del punto misurato. Nelle impostazioni predefinite, prima di ciascun ciclo di stampa, l’estrusore misura l’altezza dei tre punti di riferimento, e la corregge usando i servomotori, sino ad azzerare le differenze. Il piano di lavoro viene di conseguenza livellato perfettamente, con un dislivello tra i tre punti di 0 (zero!) micron.

Questo non è l’unico miracolo del piano di stampa della Cubicon Single Plus. Il superficiale, esclusivo trattamento ad alta resistenza è in grado di garantire, in concomitanza con una attenta gestione delle temperature, una straordinaria adesione del modello. Ma al termine della stampa – voilà – nessuna grossolana spatola è necessaria. E’ sufficiente tirare il filo di skirt iniziale (o semplicemente soffiare) per distaccare il modello, la cui superficie inferiore risulta perfetta. Il piano è inoltre fissato tramite magneti, e può essere agevolmente rimosso senza la necessità di scollegare fili.

La camera calda a convezione, il segreto di una così elevata qualità di stampa

Camera a convezioneEd ecco l’aspetto che fa davvero la differenza tra le stampanti desktop Cubicon e la maggior parte degli altri modelli di fascia analoga. Oltre ad una carrozzeria completamente chiusa, presupposto minimo per ottenere buoni risultati con materiali ad alta ritrazione come l’ABS, la 310F integra una camera calda a convezione. All’interno dell’area di lavoro, la temperatura viene mantenuta costante, a valori programmati, per tutto il tempo necessario a completare la stampa. Questa accortezza gioca un ruolo fondamentale rispetto al risultato finale.

Evita che il modello si deformi (o potenzialmente si distacchi dal piano), e che si verifichino delle crepe nei soggetti di maggiori dimensioni, a causa di shock termici.

L’impatto non è soltanto sull’aspetto estetico, ma influisce profondamente su quello funzionale.

La compattezza, solidità e resistenza meccanica del modello stampato risultano sensibilmente superiori rispetto allo stesso modello stampato in un ambiente soggetto a variazioni di temperatura.

Gli oggetti realizzati si presentano molto simili ad analoghi oggetti stampati ad iniezione, e si propongono come realizzazioni professionali.

Nessuna brutta sorpresa

Rilevatore anomalie filamentoStampe fallite a causa dell’imprevisto esaurimento della bobina di filamento? Un ricordo. Il gruppo di stampa della Cubicon 310F è dotato di un sofisticato sistema di rilevazione delle anomalie nel trascinamento filamento, che risolve questo problema. La stampa viene messa in pausa, e l’operatore può sostituire la bobina o risolvere il problema e riprendere il lavoro senza danni.

Ed oltre a questo (prezioso) accorgimento, i progettisti HyVision hanno introdotto nella meccanica dell’estrusore altre migliorie che ne facilitano l’impiego e lo rendono meno soggetto a problemi.

Ad esempio, un meccanismo a molla con una comoda leva ad azionamento rapido permette di evitare, in fase di scarico filamento, che i rigonfiamenti che si possono creare all’estremità del filamento ne impediscano la corretta estrazione. Nelle macchine con un accoppiamento rigido tra pignone e rondella antagonista questa problematica è frequente. Risolvendola con una trazione eccessiva, il rigonfiamento si può staccare all’interno del tubo di alimentazione e compromettere un successivo caricamento, richiedendo lo smontaggio meccanico dell’hot end. Anche nella ipotesi nella quale si dovesse rendere necessario un intervento sul gruppo di stampa (es. pulizia, sostituzione ugello, sostituzione ventola etc.), l’operazione può essere molto facilmente gestita “fuori macchina”, su un comodo tavolo bene illuminato, poiché è sufficiente svitare una singola vite per smontare in pochi secondi l’intero gruppo.

Il filtro a triplice azione

Filtro Cubicon

Le Cubicon 310F sono dotate, come nella tradizione HyVision, di un efficace filtro in grado di evitare la diffusione nell’ambiente di fumi potenzialmente tossici e di odori sgradevoli. Facilmente accessibile dal pannello frontale, per l’ispezione e la sostituzione, il filtro sfrutta tre diverse tecnologie. Impiega infatti una componente Hepa, in grado di catturare polveri sottili con diametro sino a 0,3 micron, una componente a carboni attivi, per il filtraggio dei gas tossici, e un elemento Purafil Catalyst, per il filtraggio di componenti organici.

Connettività e controllo

Una delle aree che interessate da importanti migliorie è quella legata alla connettività e al controllo delle funzioni. L’originale slot per schede SD, piuttosto delicate da manipolare, è stato sostituito da uno slot per chiavette USB, che può essere utilizzato anche per U-Disk, facilmente collocabili sull’ampio piano di appoggio. Ma oltre a questo, è stato introdotto il supporto per reti WiFi che consente di inviare job alla macchina direttamente da PC remoto. In entrambi i casi (chiave USB o connessione WiFi), i file in input vengono in realtà scritti nella memoria integrata della macchina. In questo modo, a trasferimento eseguito è possibile sia rimuovere la chiave USB, sia scollegare il PC dalla rete WiFi senza alcun problema. La stampa verrà gestita utilizzando soltanto risorse locali. Se il PC resta collegato, sarà invece possibile seguire sul monitor l’evoluzione della stampa, e monitorare temperature e altri parametri in tempo reale.

WiFi cubicon 310F

Silenziosità

Silenziosità

Tutti i meccanismi che includono motori, guide, sistemi meccanici in movimento producono necessariamente rumore. Uno sforzo del team di progettisti, che ha implicato la revisione di alcuni aspetti dell’architettura della macchina, l’adozione di una nuova potente elettronica a 32 bit con nuovi driver, e altri interventi su diversi componenti, è stato quello di ridurre drasticamente il rumore rispetto alla versione precedente. Con un risultato eccellente. La nuova Cubicon 310F Single Plus  produce un livello di rumore impercettibile già a un metro di distanza.

Il video riassume alcuni dei principali intenti del progetto, che hanno portato allo sviluppo di una macchina che costituirà nel prossimo futuro un punto di riferimento nella stampa 3D FDM desktop.

La carta d’identità della Cubicon 310F

Caratteristica 
Dimensioni554 x 579 x 524 mm (L × P × A)
PesoCirca 25 Kg
Volume utile240 X 190 X 200 mm (L × P × A)
Spessore layer0,01-0,30 mm
Velocità max spostamento500 mm/sec
Precisione di posizionamento XY6.25 um
Precisione di posizionamento Z1.25 um
T. max estrusore260°
T. max piano
ElettronicaArm Cortex 32 bit
ConnettivitàUSB, WiFi, U-Disk
Rilevamento anomalia filamentoSi
Filtro fumi e odoriSi
Camera calda a convezioneSi
Stampa elastomeriSi
Piano magnetico rimovibileSi
Superficie del piano trattata (non necessita di adesivi)Si
Calibrazione automatica con servomotoriSi
Gruppo di stampa a cambio rapidoSi
Display Touch a coloriSi
Diagnostica completa su displaySi
Stampa e monitor da PC via WiFiSi
Software a corredoCubiCreator
Compatibilità con SW open sourceSi
Sistema OperativoWindows, Mac

Raft, Brim, Skirt: come e perché utilizzarli, come rimuoverli

Pietro Meloni Guide, Stampa 3D 0 Comments

 

Purtroppo, la nostra bella lingua fa fatica a sintetizzare neologismi legati alle innovazioni tecnologiche, e ci dobbiamo accontentare di parole come Raft, Brim e Skirt per definire le varie modalità di con le quali inizia la deposizione di materiale nelle stampe 3D FDM.

Proviamo a tradurle, tanto per dare almeno una prima definizione terminologica. La parola Raft nell’Inglese comune indica una zattera: rende bene la geometria del Raft nella stampa 3D: ‘una struttura di base generalmente costituita da linee incrociate, saldate tra loro.

Brim potrebbe essere tradotto con la parola Falda e, anche in questo caso, rispecchia la forma dell’estensione orizzontale della sezione del primo strato, come le falde di un cappello.

Con lo Skirt abbiamo più difficoltà: in Inglese è la gonna, o l’orlo. Nessuna di queste due parole da l’immagine dell’elemento del quale stiamo parlando, un profilo di offset costituito da una o più linee, ad una certa distanza dalla parete della prima sezione del modello.

Allora, per evitare equivoci, meglio aiutarci con delle immagini.

Immaginiamo di dover stampare un piccolo tappo, come quello nell’illustrazione:

Modello da stampare

Nella immagine seguente, il modello viene stampato con un Raft:

 

Raft

Il modello, stampato con il Raft

Come si può vedere, il Raft è davvero una “zattera”, più ampia rispetto alla base del modello della dimensione specificata nei parametri. Il Raft è caratterizzato da un certo spessore, e costituito da diversi strati.

Nell’immagine successiva, il modello viene stampato con il Brim. Si tratta davvero di una “falda”, anche in questo caso più ampia della base di appoggio, e costituita da un singolo strato. L’ampiezza viene determinata specificando il numero di linee con le quali è formato.

Stampa con Brim

Il modello è stampato con il Brim, costituito da 5 linee

In questa ultima immagine, lo Skirt. Si tratta di un offset delle pareti della base, a distanza specificata e costituito da un numero di linee definito nei parametri (in questo caso, una sola linea).

Modello stampato con Skirt

Modello stampato con Skirt

Ci siamo. Li abbiamo almeno illustrati tutti e tre. Ma ora, entriamo nel vivo dell’argomento. A che servono, quando utilizzarli, come rimuoverli. Ma prima di addentrarci nell’opportunità di usare uno dei tre metodi, sottolineiamo anche che – ove le circostanze lo consentono, si può anche stampare direttamente il modello senza alcuna “aggiunta”. Ovviamente, da un punto di vista di tempo e risparmio di materiale questa sarebbe la soluzione migliore, ma debbono sussistere precisi requisiti poiché possa venire applicato questo metodo:

  1. la base di appoggio deve essere sufficientemente ampia
  2. il materiale utilizzato deve soffrire solo limitatamente di fenomeni di deformazione (altrimenti si staccherà)
  3. non debbono essere presenti supporti da terra con una base d’appoggio di superficie modesta (si staccherebbero anche quelli)

Allora, visto che queste circostanze ricorrono di rado, rientriamo in tema, ed analizziamo i tre metodi dai quali eravamo partiti.

Raft

E’ la struttura di base più resistente tra le tre. Lo scopo è quello di far aderire il modello al piano di lavoro nel miglior modo possibile. E non soltanto. A causa della sua geometria, costituita generalmente da uno o più strati longitudinali ad una certa distanza, uno o più strati trasversali (sempre ad una certa distanza), e da uno o più piani stampati con un passo più fitto, contribuisce a scaricare le forze di deformazione lungo queste maglie, e quindi attenua il fenomeno del warping. Il Raft è in sostanza “l’ultima spiaggia”, l’estremo tentativo di far aderire il modello al piano durante tutta la stampa.

Il Raft viene generalmente deposto a velocità molto più basse degli strati successivi (quelli che compongono il modello), con un flowrate maggiore e in qualche caso a temperatura più alta. Questo migliora la sua adesione al piano.

Gli ultimi livelli del Raft (generalmente due) hanno un passo molto più fitto, che produce una superficie con quasi simile a quello di un vero e proprio piano. “Quasi” simile, poiché tra una passata e l’altra c’è una piccola distanza, che migliora la successiva possibilità di staccare il modello.

Il Raft è praticamente indispensabile se sono presenti supporti “da terra”. La struttura dei supporti è per definizione esile e fragile. Hanno bisogno di una solida base per resistere il tempo necessario senza cadere prima che le superfici da supportare siano state create.

Il lato negativo del Raft è evidente: richiede materiale aggiuntivo, che verrà scartato (per la verità, non molto), e soprattutto tempo. Data la bassa velocità con la quale viene deposto, nel caso di stampe grandi (es. 25×25 cm), può richiedere anche alcune ore. Richiede inoltre un tempo di postprocessing supplementare, sia per la sua rimozione, sia per la rifinitura della base successiva.

Come si toglie il Raft

Nei casi più fortunati, basta strapparlo “come una pellicola”. Teniamo conto che la maggior parte degli slicer consente di definire la distanza del modello dal Raft, e la densità della sua superficie di appoggio. Manipolando questi due parametri si può ottenere un’adesione maggiore o minore del modello, e quindi rivolta a garantire una maggiore tenuta o a semplificare la rimozione. Nei casi nei quali l’adesione al modello sia elevata, ci si può aiutare con una spatola, possibilmente indossando guanti protettivi per evitare possibili lesioni.

Una volta staccato il Raft, la superficie inferiore del modello risulta “sbiancata”, a causa delle microfratture che il materiale ha subito. Meglio non carteggiarla; si peggiorerebbe la situazione. Per riportare la base al colore originale, ci si può aiutare con una pistola ad aria calda, o meglio con il validissimo Versatip, un utensile ad aria calda reperibile presso negozi “Fai da te” e ferramenta.

Versatip

Questo apparecchio è dotato di diversi puntali (utilizzabili per differenti operazioni di finitura), e di un ugello che permette di erogare aria calda, adatto per questo scopo. Sarà sufficiente dirigere l’aria calda per pochi secondi sulla superficie di base per eliminare completamente il cambiamento di colore.

Brim

Il Brim coniuga l’intento di migliorare l’adesione del modello alla base, e quella di limitare il tempo di stampa allo stretto necessario. Personalmente, la considero un ottimo compromesso. E’ adatto in situazioni non “estreme” (per le quali è più adeguato il Raft), e quando non sono presenti supporti da terra, a meno che non ricadano nel suo “raggio di azione”. Viene definito come numero di linee aggiuntive rispetto al profilo esterno della prima sezione del modello.

Nell’impiegare il Brim, va considerato che in molti slicer (e naturalmente se la macchina ha un solo estrusore) può essere effettuato soltanto con lo stesso materiale di costruzione. Questo può renderne la rimozione più complicata, poiché in effetti è totalmente saldato alla base.

Rimozione del Brim

Si può eliminare questa “tesa” a mano, strappandola, ma di solito non si ottiene un risultato del tutto pulito. Si rischia che in alcune zone il Brim non si stacchi del tutto, e in altre invece si strappi parte della base del modello. Il modo migliore è utilizzare uno sbavatore, facilmente reperibile in utensilerie ben fornite o su eShop.

sbavatore manuale

Lo sbavatore va usato delicatamente sugli spigoli sui quali è presente il Brim, nei due sensi per ottenere angoli perfetti e leggermente smussati.

Skirt

Questo terzo metodo per iniziare la stampa non ha la finalità di aumentare l’adesione al piano, ma semplicemente quella di rendere omogeneo il flusso di materiale prima di iniziare la stampa vera e propria. Non presenta quindi alcun problema di rimozione, in quanto non è fissato al modello. Dal piano di lavoro può essere rimosso con una semplice spatola in pochi secondi.

Le possibilità di impiegare i metodi descritti, e soprattutto quelle di controllarne i parametri variano da slicer a slicer. In alcuni casi (es. IdeaMaker), i metodi possono essere utilizzati contemporaneamente (es. Skirt + Brim + Raft, Brim + Raft, Skirt + Raft etc.) consentendo un maggiore controllo.

 

 

HIPS: un filamento con molte interessanti caratteristiche spesso trascurato

Pietro Meloni Filamenti, Guide, Stampa 3D 0 Comments

 

Molto spesso considerato un filamento confinato all’uso con doppio estrusore per la stampa di supporti solubili, l’HIPS si presta a molte altre diverse applicazioni. La “Cenerentola” dei filamenti, ritenuto dai chimici delle materie plastiche un “parente povero” dell’ABS, condivide con la protagonista della favola eccellenti doti di versatilità, e positive caratteristiche che raramente si riscontrano in tale quantità in altri filamenti, molto più diffusi ed utilizzati.

Guardiamolo con la lente di ingrandimento.

L’HIPS (High Impact PolyStirene – Polistirene ad alto impatto o Polistirene antiurto) è un materiale termoplastico costituito da Polistirene e gomma Stirene-Butadiene (SBR).

L’effetto dell’aggiunta dell’elastomero al polistirene comune, ne modifica le proprietà:

  • lo rende più tenace, con un maggior allungamento a rottura. L’HIPS può allungarsi sino al 40% prima di rompersi;
  • aumenta la resilienza, rendendolo più resistente agli urti
  • lo rende opaco
  • ne diminuisce la durezza, resistenza a trazione, flessione, invecchiamento, ma in misura molto contenuta

L’aggiunta della gomma SBR avviene per miscelazione a caldo o per innesto, sciogliendo la gomma nello Stirene.

Struttura dell'HIPS

Struttura chimica del polistirene antiurto ottenuto per innesto; la catena polimerica principale (A) è costituita dal polistirene, mentre le catene polimeriche laterali (B) sono costituite da gomma SBR).

A questo punto, immagino che la “prefazione chimica” sia sufficiente, e che sia gradita una spiegazione più di tipo pratico delle buone qualità dell’HIPS, e del perché utilizzarlo.

Prendiamo ad esempio un oggetto molto comune, con il quale tutti abbiamo prima o poi avuto a che fare. La cosiddetta “Jewel box”, ovvero il contenitore dei CD standard.

Contenitore CD, realizzato in Polistirene e HIPS

Contenitore CD, realizzato in Polistirene e HIPS

E’ l’oggetto che si presta maggiormente per un confronto tra Polistirene comune e Polistirene ad alto impatto. Per il semplice motivo che il lato superiore (trasparente) è fabbricato con Polistirene, e quello inferiore (dove si fissa il CD) è fatto di HIPS.

Ebbene, a tutti è caduto un CD nella sua confezione. Il coperchio trasparente spesso si rompe (generalmente salta la cerniera). Quello inferiore no. Anzi, ci si può persino (inavvertitamente) camminare sopra, senza grandi danni. E’ più elastico, si può piegare, mentre il lato trasparente è più rigido, ma se piegato si spezza facilmente.

Nel confronto “quotidiano” tra i due elementi, la parte realizzata in HIPS appare pressoché indistruttibile, rispetto al coperchio, che percepiamo come estremamente fragile. Tanto è vero, che soprattutto nelle case con bambini, nella libreria di CD la maggior parte dei coperchi dei contenitori finisce irrimediabilmente per rompersi. Non è vero?

L’HIPS nella stampa 3D

Bene. Abbiamo individuato, nella vita di tutti i giorni, di che materiale stiamo parlando, e penso iniziato ad intuirne i vantaggi e le potenzialità. Ma noi dobbiamo stampare… Come si comporta la nostra Cenerentola da questo punto di vista?

Alla grande. Vediamo nel dettaglio tutti gli aspetti positivi nell’uso dell’HIPS.

Prezzo

L’HIPS è un materiale in ‘origine economico (industrialmente). All’epoca dell’introduzione come filamento per la stampa 3D, il costo era tipicamente più caro rispetto ai materiali più comuni, consentendo un maggiore margine di guadagno ai produttori di filamenti. Questo perché – appunto in origine – era stato presentato come materiale “esotico”, principalmente rivolto all’impiego come materiale di supporto solubile. Ma questo mercato non è poi così ampio. Quindi nel tempo il marketing è cambiato, e si è iniziato a promuoverlo anche come materiale di costruzione del modello. I prezzi, salvo quelli di qualche produttore, si sono abbassati ed è reperibile con costi allineati a quelli del PLA ed ABS. Ma con un vantaggio. Il peso specifico è sensibilmente inferiore: 1.03-1.05, contro l’1.07 dell’ABS e l’1.240-1.300 del PLA.
Questo significa che con un chilogrammo di materiale, possiamo stampare un volume di 970 cc di materiale (escluso infill) con l’HIPS, di 934 cc con l’ABSe di 806 cc con il PLA. In parole molto più semplici, a parità di costo della bobina, l’HIPS frutta di più. Notevolmente di più rispetto al PLA.

Stampabilità

L’HIPS è facile da stampare. Non tanto quanto il PLA, ma sicuramente più dell’ABS (del quale è comunque parente). E comunque, dipende sempre da quale punto di vista consideriamo un materiale più stampabile di un altro. Ad esempio, l’HIPS non intasa l’ugello (eventualità presente con il PLA), anzi lo mantiene pulito. Non cola: gli effetti di stringing spesso riscontrabili nel PLA e peggio ancora nel PET-G) sono assenti. Non si spezza (come accade per il PLA se ha assorbito umidità). Ha una “latitudine di temperatura”, ovvero l’intervallo tra la temperatura minima e massima alla quale può essere stampato molto elevata (anche 50°). Ottimo il bridging, l’HIPS si presta bene per la stampa di modelli Voronoi, con parti sospese di notevoli dimensioni.

HIPS Voronoi

Finitura

Personalmente, la trovo eccellente, superiore a quella di quasi tutti gli altri filamenti disponibili. L’HIPS è opaco, e questo contribuisce notevolmente ad attenuare visivamente la scalettatura provocata dagli strati. A parità di layer, un oggetto stampato in Polistirene ad alto impatto appare molto più liscio e uniforme.

Potenziale dannosità dei fumi, odore

Inferiori (entrambe) a quelli dell’ABS. E’ comunque un materiale di sintesi, ma non contiene Acrilonitrile, considerato il componente potenzialmente pericoloso dell’ABS. Durante la stampa, risulta praticamente inodore.
L’HIPS può essere utilizzato tranquillamente per stampare giocattoli per i bambini.

Tendenza alle deformazioni (warping)

Sensibilmente inferiore rispetto all’ABS. E’ possibile stampare oggetti considerevolmente più grandi senza che il modello si imbarchi o distacchi dal piano.

Resistenza all’urto

Beh, è un materiale fatto apposta per resistere agli impatti. E’ ideale, anche a causa del suo basso peso specifico, ad esempio per stampare parti di droni. Se dovessero cadere, difficilmente si romperanno. Altrettanto valido come scelta per componenti adatti al modellismo dinamico.

HIPS per droni e modellismo dinamico

L’HIPS come materiale per la costruzione di supporti

E’ stato introdotto nella stampa 3D originariamente per questo scopo. Si dissolve in D-Lemonene, un idrocarburo di origine naturale estratto da lavorazioni industriali della buccia degli agrumi. Impiega tempi lunghi, ma viene completamente disciolto.

Rispetto ad altri filamenti solubili presenta alcuni indiscutibili vantaggi. Tende ad aderire pressoché a tutti i materiali, inclusi gli elastomeri, al contrario ad esempio del PVA che da questo punto di vista è piuttosto restio. E’ sufficientemente flessibile da consentire la realizzazione di supporti alti e stretti (pilastri) senza che si rompano per effetto delle vibrazioni. Non si deteriora facilmente nel tempo, anche se la bobina viene lasciata aperta, esposta all’umidità dell’aria. E costa meno.

HIPS supporti solubili

Ma non va confrontato “soltanto” con gli altri filamenti solubili. L’HIPS è un ottimo materiale per supporti anche laddove questi non vengano disciolti, ma rimossi meccanicamente. Nei punti di giuntura tra materiale di supporto e materiale di costruzione, si stacca con grande facilità, e a causa delle sue proprietà elastiche, difficilmente i supporti si rompono. Questo consente di strapparli “a fisarmonica”: anche supporti di grandi dimensioni tendono a venire via in un solo pezzo. Nel complesso, sia utilizzato come materiale solubile, sia a secco con rimozione meccanica, l’HIPS conferma la sua validità come materiale di supporto con una eccezionale versatilità.

Beh, spero di avervi convinto ad includere questo eccellente materiale nell’arsenale dei vostri filamenti. Non vi deluderà.

 

 

 

 

Solubili o facilmente rimovibili: i supporti ideali per stampare in 3D con il doppio estrusore.

Pietro Meloni Guide 0 Comments

 

 

Solubili… Qualcosa che si scioglie…. Magnifico.
I supporti solubili sono un'illusione?

Avevo promesso un approfondimento sul tema dei supporti solubili, stampabili con un doppio estrusore.

Per la prima immagine, ho scelto Mandrake, il più famoso mago e illusionista del mondo dei fumetti. Già, perché la dissoluzione di un materiale è qualcosa di magico. E anche, come vedremo, qualche volta un’illusione.

Mantengo comunque la promessa, cercando di ampliare l’argomento, citando anche altre alternative per quanto riguarda la scelta dei filamenti specifici per la realizzazione delle strutture di sostegno.

L’idea di costruire i supporti con qualcosa che si dissolva è attraente. Pensate ad una voluminosa e antiestetica impalcatura per la ristrutturazione della facciata di un palazzo, che a cose fatte – voilà – scompare. Non sarebbe stupendo?

Il punto è: funziona? quanto costa? difficoltà? Proverò a rispondere.

Supporti solubili

Lo dice il termine. Solubili. Si sciolgono (in qualche “solvente”?). Scompaiono. Proprio quello che volevamo ottenere. Beh, iniziamo proprio dal solvente. l’ideale è senza dubbio l’acqua. Costa poco, non è tossica. Basta trovare un materiale che:

  • si sciolga in acqua
  • abbia caratteristiche termoplastiche, possa essere stampato senza grandi difficoltà
  • aderisca ad altri materiali (quelli con i quali costruiremo il modello)

Facile a dirsi. Per quanto riguarda il primo, essenziale punto, la scelta è vastissima. A nche il sale si scioglie in acqua. Ma non è stampabile. Non ha caratteristiche termoplastiche.

PVA e acqua

L’essenziale requisito di poter venire stampato restringe -ahimè – la scelta a ben poco: PVA o PVOH.
Vediamo di che si tratta. Il PVA o PVOH è un composto chimico (alcool polivinilico) ottenuto per idrolisi dagli esteri polivinilici. E’ utilizzato nell’industria tessile per l’incollaggio di fibre naturali. Può essere trattato come un termoplastico, e di conseguenza “stampato”. Ma attenzione: è usato anche come distaccante  per stampi in vetroresina o altre materie plastiche. Mmmm. Questo aspetto sembra pregiudicare il terzo requisito: quello di aderire al materiale che si intende supportare. Comunque, un sommario profilo del PVA lo abbiamo tracciato. Vediamo in dettaglio quali sono i lati positivi (in verde) e quelli negativi (in rosso).

  • Si scioglie in acqua
  • Può venire facilmente rimosso anche quando è semplicemente ammorbidito (tempi brevi – preferibile) 
  • E’ costoso (mediamente, 60-100€/Kg)
  • E’ estremamente igroscopico. Una volta aperta la bobina, tende a degradare (divenendo morbido e difficilmente stampabile) nell’arco di pochi giorni o poche ore, a seconda dell’umidità dell’aria
  • Aderisce con difficoltà al materiale di costruzione
  • Può essere necessario costruire speciali strutture di supporto (es., nido d’ape)
  • Se rimane a lungo in un estrusore caldo inutilizzato, o la temperatura di estrusione è eccessiva, tende a formare residui che intasano l’ugello, a volte in modo irreversibile.

Il bilancio non è molto positivo. Il lusso di un supporto solubile in acqua si paga.
In poche parole, si tratta di un materiale difficile da stampare, e ancora più difficile da conservare. Per chi sceglie di utilizzarlo, è conveniente acquistare bobine di modesto peso (200-300 Gr) da utilizzare per una singola stampa, o prelevare dalla bobina appena aperta solo la quantità necessaria, e richiudere immediatamente il materiale in eccesso in una busta sigillata con silica-gel. Una possibile alternativa è l’uso di un contenitore sigillato come quello nella seguente immagine:

Filamenti solubili: contenitore sigillato per PVA

Il progetto per realizzare questo tipo di contenitore è disponibile al seguente collegamento. Il contenitore può essere convenientemente usato anche per altri filamenti particolarmente igroscopici, es. Nylon.

 

Oltre alla scarsa “vita utile” dei filamenti PVA esposti all’aria, come accennato prima c’è spesso la difficoltà di far aderire i supporti al materiale di costruzione. Nei casi più estremi, il filamento tende a venire estruso come se fosse “pasta di mandorle”, e anziché aderire al materiale (es. ABS, PLA) forma dei piccoli riccioli che non consentono di costruire nessuna struttura. Consiglio in questo caso di non cedere alla tentazione di innalzare eccessivamente la temperatura, per ottenere una estrusione più fluida: rischiamo una trasformazione irreversibile del materiale in un composto che non può essere più disciolto in acqua, e che intasa definitivamente l’ugello rendendolo inutilizzabile. Come strategia per aumentare l’adesione, si può aumentare il flowrate (anche significativamente, sino al 150-180%). Questo crea una sovrapressione che “spinge” il materiale contro la superficie alla quale deve aderire.

 

Insomma, il PVA non è precisamente un materiale semplice. L’aspetto positivo della solvibilità in acqua è ampiamente compensato da una serie di altre “controindicazioni”. Altri filamenti che possono usare diversi solventi?

HIPS e D-Lemonene

Ecco una possibile alternativa di supporti solubili. Vediamo da quale “ingredienti” è composta.

L’HIPS (High Impact PolyStyrene) è un polistirene antiurto, ottenuto dalla miscelazione di gomma SBR con comune polistirene. E’ un filamento con interessanti proprietà, non necessariamente utilizzabile solo come supporto: offre un elevato grado di finitura, ha un piacevole aspetto opaco, è resistente agli urti e poco costoso. Ed in più, ha una singolare particolarità: si dissolve nel D-Lemonene. E veniamo a questo secondo “protagonista” dell’accoppiata “supporto-solvente”.

Il D-Lemonene è un idrocarburo, ottenuto da lavorazioni industriali degli agrumi. E’ naturalmente presente nella buccia dei limoni, dalla quale viene estratto e della quale conserva il caratteristico odore. Dotato di un elevato potere sgrassante, viene comunemente usato come additivo nei detergenti.

Bene, anche se con tempi piuttosto lunghi (24-30 ore), il D-Lemonene discioglie l’HIPS, e quindi soddisfa uno dei requisiti per essere utilizzato nella stampa 3D per sciogliere i supporti. Ma vediamo insieme, come abbiamo fatto prima per il PVA, pregi e difetti di questa soluzione.

  • L’HIPS è un filamento poco costoso (circa il prezzo di ABS-PLA)
  • Il peso specifico è basso, “frutta” molto
  • Non è particolarmente igroscopico, si conserva a lungo
  • Non intasa l’estrusore, è facile da stampare (con piano riscaldato)
  • Si può utilizzare, in molti casi con vantaggio, anche come materiale “di costruzione”
  • Ha una scarsa tendenza a fenomeni di deformazione e distacco
  • Aderisce a molti materiali di stampa
  • Il D-Lemonene è costoso (circa 25-30€ / litro)
  • Con tempi lunghi di esposizione, può deteriorare alcuni tipi di ABS
  • Nonostante l’odore gradevole, è preferibile utilizzarlo in un ambiente aerato. Non può essere smaltito nel lavandino
  • Non ammorbidisce i supporti: è necessario attendere il loro completo scioglimento (24-30 H). 

Nell’insieme, il bilancio tra pro e contro sembra migliore di quello del PVA-Acqua. Quantomeno, il valido HIPS può entrare a far parte dei filamenti che comunemente utilizziamo per la stampa; per usarlo come occasionale materiale di supporto è sufficiente tenere una scorta di D-Lemonene (che si conserva a lungo) e che può essere usato alla bisogna per scioglierlo.

Ma insomma, l’idea dei supporti solubili è proprio quella giusta? Ci sono altre possibilità più convenienti? In entrambi i casi trattati –  PVA e HIPS, abbiamo trovato diverse “controindicazioni”. Un’altra soluzione?

In fondo, ci interessa “liberarci” dei supporti nel modo più semplice possibile. Torniamo a considerare la rimozione “meccanica”, ma ponendo un vincolo. Il materiale di supporto si deve staccare facilmente, non deve lasciare fastidiosi residui, ma deve comunque risultare sufficientemente robusto per assicurare una efficacie tenuta delle strutture di costruzione sovrastanti. PolyMaker, un produttore di filamenti piuttosto impegnato nella ricerca, ha proposto una sua ricetta: PolySupport, un materiale specificatamente realizzato per la stampa di supporti.

PolySupport

Nel pieghevole illustrativo contenuto nella elegante scatola del filamento, si legge una interessante presentazione: “Il segreto di PolySupport è il dosaggio della forza di adesione interlayer. Il materiale è sufficientemente robusto da supportare la struttura, ma può essere facilmente strappato a mano. Non sono necessari utensili. Non aderisce al modello, lo supporta. Questo significa che la superficie del modello non viene danneggiata dalla sua rimozione.”.

Interessante. Sottoponiamolo, impietosamente come abbiamo fatto per le altre soluzioni, alla prova del pro-contro.

  • Non fa parte della categoria dei supporti solubili. Niente solventi, nessun problema di igroscopicità
  • Non si fissa al modello. Una volta rimosso, non lascia tracce né danni
  • Ha una durata elevata una volta aperto; non viene compromesso dall’umidità dell’aria
  • Può essere utilizzato per supportare elastomeri
  • E’ particolarmente facile da stampare
  • Dopo la stampa, la rimozione può avvenire in pochi minuti: si strappa “a fisarmonica”, e non è necessario attendere tempi lunghi di dissoluzione
  • Non richiede necessariamente un piano riscaldato
  • E’ relativamente costoso (70-90€/Kg)
  • Non è raccomandato per la stampa dell’ABS

Sulla carta, appare nel confronto come il materiale di supporto più “comodo”, con un maggior numero di aspetti “positivi”, e pochi aspetti “negativi”.

 

Il verdetto finale

Non c’è. Anche se la quantità di “pro e contro” delle tre diverse soluzioni appare nettamente diversa, non mi sento di esprimere un verdetto definitivo. Ci possono essere circostanze (ad esempio, la particolare geometria del modello, il materiale di costruzione, fattori ambientali etc.) per i quali va preferita una specifica modalità. Non a caso, tutte e tre le proposte fanno parte della nostra gamma di prodotti. Piuttosto, mi sentirei di dire che non abbiamo ancora raggiunto, per il materiale di supporto, una soluzione in grado di soddisfare tutte le esigenze, senza controindicazioni. Chissà se i guru delle materie plastiche ci stanno pensando.